Padova A.P. 13

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Torre dell'orologio, simile alla torre dell'orologio astronomico di Venezia
Torre dell’orologio, simile alla torre dell’orologio astronomico di Venezia

“Sono per la combustione, quella vecchia, che ha fatto la storia. Del tabacco, dico. Fumo solo tabacco arrotolato. Oggi il tabacco è merce assai cara per quello che vale. Non vale un cazzo, di per sé; però costa. Fumo la vecchia combustione. La fiamma, il calore; il suono del fuoco sul tabacco fresco e quell’odore tossico della prima accensione. Cherosene e cemento. Di questo tempo tutti fumano dei cazzetti metallici con un sacco di luci. E aromi. Prova a fumarti Ananas e Mango alla vecchia maniera e poi dimmi. I polmoni rifiutano l’esotico incandescente. Si stringono come spugne intrise d’acqua e rigettano quella merda. Il mango e l’ananas, dico.”

Una piccola bambina sostava immobile davanti all’uomo seduto sulla panchina dei Giardini dell’Arena. L’uomo teneva la schiena ricurva sopra le gambe e le braccia a sorreggere il peso dell’arcata. Fissava la bambina, affascinata a sua volta da quella strana figura. L’uomo la guardò per un paio di secondi, mise la sigaretta tra le labbra e diede una bella inspirata. La piccola osservava senza dire parola e scrutava con aria innocente quel gesto che ai suoi occhi appariva carico di novità.

L’uomo indicava alla bambina di avvicinarsi e questa si spostò di qualche passo in avanti. L’uomo espirò tutto il fumo sul volto dell’infante che cominciò a tossire e a lacrimare tra le risa dell’adulto che si alzò per incamminarsi verso il parcheggio di Piazza Eremitani.

Alla tosse seguì un pianto singhiozzato che impensierì il fratello maggiore, intento a giocare a calcio con un paio di amici, nell’erba lì vicino. Questi corse in soccorso della sorella, non prima di aver calciato con estrema violenza il pallone; che si impennò, oltrepassò le mura e finì il suo volo in corso Giuseppe Garibaldi, alla fermata del tram. Proprio in quel momento tre signore attendevano con impazienza l’arrivo del mezzo pubblico.

(Mi duole dover operare una drammatica traduzione del dialetto patavino, ben più colorito del tristo italiano, costretto dal nobile incarico assegnatomi e al quale non intendo venir meno. Ancor più rammarico mi sovviene nel praticare censura (***) di quei termini che potrebbero portar scompiglio nella quieta anima del nostro amato pubblico che con gioia porta con sé Dio)

“…cane signora! É suo?”

“Sarebbe della mia nipotina, ma lo porto molto volentieri a passeggio, sa?”

“Fa bene, così si fa anche quattro passi che ci tengono in forma.”

In quell’istante fatale la gravità l’ebbe vinta e il pallone tentò un fortuito atterraggio sul prosperoso seno della donna col cane.

“U! (***) de (***), madonna (***)”

“(***) bestia!”

“Ma è possibile che una signora di una certa età, (***), non possa stare tranquilla nemmeno andando a fare la spesa?”

“Ci sono i campetti apposta dietro le chiese per giocare a pallone.”

“(***)! Mio nipote è uguale. Va a giocare a pallone e (***) solo sa cosa fa.”

“Che poi ritornano tutti pieni di botte,”

“e sporchi da far schifo,”

“e le mamme a lavare e lavare di continuo.”

La terza signora ascoltando la vivace, vuota e inconcludente diatriba si sporse per raccogliere il pallone.

“Non glielo raccolga che sono giovani e se fanno le marachelle devono risponderne loro. Devono imparare.”

“Certo signora, ha ragione, ma non credo che abbiano fatto apposta e non mi costa nulla prendere questo pallone e portarlo dall’altra parte della strada.”

La terza signora raccolse la palla e si incamminò verso i giardini. Le due signore, accortesi di essere osservate, decisero di accompagnarla, dipingendosi in volto un’espressione di felice carità.

Quando il pallone toccò nuovamente il verde manto le porte del tram si chiusero, lasciando le tre anziane ad attendere la prossima corsa. Pochi minuti dopo cominciava a piovere.

Ben presto all’angolo tra via San Francesco e la Riviera Tito Livio, tra via San Francesco e via Roma e tra Piazza delle Erbe e via Fabbri, i venditori ambulanti di libri, e di accendini,  braccialetti e fazzoletti, fuggivano sotto i portici per tentare di salvare il loro commercio. Alfried Giolsé Mabomba è un congolese, immigrato clandestinamente, giunto in Italia da una settimana e già avviato nel commercio di ombrelli.

Mabomba al primo sentore di pioggia si fiondò in strada al grido di “Omprelli beli!” ancor prima di chiudersi l’uscio alle spalle e di posizionarsi in Piazza dei Signori.

“Omprelli beli!, Omprelli beli!, Omprelli beli!”

“No, grazie.”

“Dai compra! Io mangiare…”

“Ho detto no!”

Ben più triste sventura colpì il neo laureato, che brillo per l’eccessivo bere, conseguente la lettura del papiro e assordato dai canti goliardici, cercò ristoro sotto la pioggia, in una commovente e liberatoria camminata nel centro della piazza. Si inginocchiò e ebbro gridò la sua gioia.

“Ho finitooo! Da oggi libertàaa!”

Non seppi resistere e dopo un velocissimo briefing tra la Torre dell’Orologio di Palazzo del Capitanio e la Loggia della Gran Guardia, volammo in più di una quindicina a defecare sul poverello.

Diario di un piccione.

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