Ho vinto a Go – Neri – Seconda parte

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aspettare

Tutti intorno a lei sembravano sapere quel che facevano e la cosa non la indispettiva come ci si aspetterebbe da una persona nel suo stato. Lei aspettava. Un’attesa lunga un’eternità e, mentre il tempo passava e il mondo mutava, lei se ne stava ferma immobile ad attendere. L’attesa. Non conosco nessuno che sappia aspettare per più di due secondi una qualsiasi cosa. Qualsiasi, che si tratti del piatto appena ordinato, dell’aperitivo al bar o del commesso a cui si è chiesto se per favore in magazzino è rimasta ancora una confezione di quel tipo specifico di cereali per la colazione. Io stesso non sono capace di attendere. Voglio tutto e lo voglio ora. Un’ansia vorace mi divora dall’interno e mi picchietta le meningi ordinandomi di muovermi, di fare qualcosa, di agire, adesso, ora, presto e subito: «Che il tempo passa!» A me come a voi l’attesa corrode l’animo e che ne diciate, non sapreste attendere, senza per questo morirci, nemmeno la preparazione di una porzione di patatine fritte. Lei, invece, se ne stava con innata speranza in posizione d’attesa, immobile alle intemperie del tempo, ai cataclismi emotivi, agli uragani del caos, con la consapevolezza che la resistenza l’avrebbe ripagata, seppure al prezzo di una sofferenza interiore imperscrutabile.

Io la guardavo da lontano come si guarda l’orizzonte, sognando e ammirando quella che ai miei occhi appariva sempre più come l’ottava meraviglia. Statuaria e sicura come un’opera d’arte, consapevole della propria bellezza e della propria forza, sicura di essere al mondo per un motivo e che per esso ne sarebbe morta. Io non potevo fare altro che ammirarla e in cuor mio chiedermi se quella che vedevo era una cinica bellezza in scontro diretto col mondo o lo sforzo estremo di una lottatrice che in qualsiasi momento sa di poter cadere sul campo di battaglia, ma che, se anche fosse successo, sarebbe caduta con la fierezza e la compostezza di un dio. Consapevole del proprio essere, delle proprie scelte, dei valori sui quali si è fondata, sui quali è cresciuta e nei quali crede. Ho sempre creduto che non si riesca a trovare tanta caparbietà in un corpo umano, non tanta quanto quella insita in uno storico edificio, deciso a non cedere all’incuria umana. Mi sono sempre tenuto a religiosa distanza, anche se devo ammettere che le mie intenzioni erano diverse; eppure più la guardavo, più ne ammiravo la stoica resistenza. Perché aspettare? Aspettare cosa? Chi? Per quanto si può aspettare?

Queste domande mi frullavano in testa una dopo l’altra con insistenza e assurda frequenza. Provavo a rispondermi quanto fossi in grado di aspettare. Io, l’incapace a lasciar passare il tempo, quanto sarei durato nelle sue condizioni? L’attesa è un parassita di infima specie. Si nutre di ansie e timori, mangia il tempo che ti circonda e lo muta, secondo dopo secondo, in dubbi, domande, in problemi che a poco a poco si aggregano in un incredibile alleanza del paradosso, per combattere, uniti, contro di te. Mina le fragili tue certezze e le tue convinzioni, muta l’aspetto della realtà cosicché al primo segno di cedimento vedrai quello che vuole, senza che tu abbia le forze per vedere cosa si cela sotto quel sottile strato di sporco bugiardo.

Ne sono consapevole. Io sarei crollato l’istante stesso l’aver deciso di aspettare. Con tutta probabilità non avrei nemmeno avuto la forza di prendere una tale decisione. Ma poi, aspettare cosa? Aspettare chi? Per quanto? Cosa ti dà una forza così grande?

La mia totale incapacità di comprendere mi rendeva lo spettatore ideale e più la guardavo  più l’ammiravo. Ma più l’ammiravo, più il volto le si rigava, lo sguardo fiero si faceva lucido, il sorriso si tirava.  Per quanto ancora può aspettare?

Più di una volta mi sono sentito in obbligo di voltarmi, di far finta di non vedere per non soffrire. La guardavo sorreggersi sulle gobbe del tempo, lottando costantemente con le sue paure e i propri timori, mentre io, vigliacco, guardavo l’orrore dalla distanza. Tic-tac. Arrivai ad ubriacarmi per riuscire a sopportare quella visione, simbolo di costanza e resistenza, permeata di credo, perché da sobrio la mia vigliaccheria l’avrebbe vinta. Ma più mi ubriacavo più ero assuefatto agli effetti benefici del nettare degli dei e a poco a poco potevo, sì, sostenere lo sguardo, mentre in me un vortice di ansie e timori si rendevano palesi; immagini vivide contro le mie sicurezze. Cominciai a sognare il giorno in cui tutto sarebbe finito, crollato sotto il segno del tempo, quando le energie sovrumane di quella bella creatura si sarebbero consunte e anche lei sarebbe crollata, inanime, al suolo, mettendo fine a quell’eterna attesa.

Tic-tac.

I primi tremori.

Tic-tac.

La stanchezza.

Tic tac.

Il corpo cede. La mente regge.

Tic-tac. È solo questione di tempo.

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