
allora qualcosa è andato davvero storto. I recenti attentati di Parigi che nella notte tra venerdì e sabato hanno provocato la morte di oltre 120 persone rappresentano un punto di svolta epocale per il vecchio continente. L’Europa occidentale vive il suo 11 settembre, evoluzione terroristica di ben altra natura rispetto a quel mai troppo lontano 2001, psicologicamente devastante, densa di tensioni sociali internazionali e alimentata dalla stessa mano che oggi si trova, ancora una volta, ad asciugarsi le lacrime. Questi attentati non sono paragonabili agli attentati di Londra del 7 luglio 2005 o di Madrid dell’11 marzo 2004.
Né tanto meno si possono avvicinare a Charlie Hebdo. In questo brutale attacco i terroristi hanno eliminato una volta per tutte il concetto di quotidianità, riuscendo a rivalutarne l’importanza in una società che della quotidianità, oggigiorno, fa unico sfoggio di consumismo, oscurandone l’alto valore morale come punto di arrivo delle libertà personali. Se prima gli attentati erano indirizzati verso obiettivi sensibili (non dimentichiamo che Hebdo era nella lista dei possibili obiettivi terroristici) adesso, e mai prima d’ora con così tanta chiarezza, la paura si fa strada dietro le arance del supermercato, vicino a un passeggino abbandonato, nei bidoni dell’immondizia in un parco pubblico, sulle strisce pedonali, in un ristorante di città, in uno stadio cittadino, a un concerto musicale. Sono morte delle persone, cittadini di una nazione fondata nel sangue sulla libertà e che da sempre ha lavorato sull’integrazione (come giustamente mi han segnalato: “La France non ha mai lavorato sul concetto di integrazione culturale e quindi su politiche atte a favorirla. La France ha da sempre puntato sull’assimilazione culturale, che è diverso.) In questo tragicamente ironico venerdì 13 è morto il modello integrativo dell’Europa occidentale. È morta, ma forse quella già da molto tempo, la razionalità ponderata del linguaggio pubblico. Non solo i soliti Salvini, ma tutti quanti hanno avuto l’ardire di avere in quattro parole spicce la soluzione a questa guerra culturale. È morta l’integrazione come concetto di interazione tre le culture. Su le barricate, muri invisibili di volti chini e sguardi rancorosi. È morta la comprensione di un’Europa unita, che forse mai lo è stata, perché fondata unicamente su basi economiche (La sua storia ha inizio nel secondo dopoguerra dalle dichiarazioni del 9 maggio 1951 di Robert Schumann, ministro degli esteri francese, ma in barba al suo discorso di una condivisione delle sovranità nazionali per un’unione che promuova la pace tra le grandi potenze europee, si è optato per far parlare il Dio soldo. Il 18 aprile dello stesso anno nasce la CECA, Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, affiancata nel ’52 da una debole CED, Comunità Europea di Difesa; nel ’57 con il trattato di Roma è la CEE, Comunità Economica Europea, o Mercato comune a fare di un pluralismo culturale un unicum economico. Nella seconda metà egli anni ’80 con una Berlino ancora divisa la CEE è ironicamente trasformata in CE, Comunità Europea. Ma la ciliegina, la grande presa in giro per chi ha voluto o creduto o voluto credere in una vera unione dei popoli europei avviene nel ’92 con l’istituzione della UE, l’Unione Europea, i cui punti chiave, […per una vera unione dei popoli …] sono: la creazione di una moneta unica, la realizzazione della cittadinanza europea e che l’UE sia il solo interlocutore in tutte le relazioni esterne per la difesa e la sicurezza.) e in questa sua escalation affonda il vecchio continente, come un fatiscente veliero troppe volte rattoppato e sempre più impossibilitato a navigare, ferito dal suo interno, sofferente perché mai saldo, perché non ha mai lavorato sulla fusione, non ha mai curato le ferite aperte. Sì, perché quello che è accaduto ha a che fare e non ha a che fare con il flusso migratorio che stiamo vivendo. Ha a che fare e non ha a che fare con il fallimento dell’Unione Europea, dalla quale credo fermamente non si possa più prescindere, ma la si deve al più presto convertire, rivalutare, una volta per tutte, sviluppare. Ha a che fare e non ha a che fare con le ideologie politiche e religiose, ha a che fare e non ha a che fare con lo stato della politica occidentale. Ha a che fare e non ha a che fare con l’informazione, pilotata, politicizzata, tardiva e censurata nella sua forma più alta, assente di una visone globale delle relazioni internazionali. Ha a che fare con ognuno di noi, complici silenziosi o aizzatori di masse che propagandiamo il benessere del nostro orticello del quale, davanti a questi scempi di crudeltà umana, enfatizziamo la grande superiorità, l’avanzamento culturale, economico e strutturale nei confronti di un mondo che non riusciamo e non possiamo comprendere. Allo stesso tempo quel florido e rigoglioso orticello di valori umani s’inaridisce istantaneamente nella visione nazionale: luogo di perdizione in cui il futuro è un miraggio, il benessere un’utopia, la vita una barzelletta. Tutto il mondo oggi guarda alla Francia e alle sue vittime, per poi voltare lo sguardo fuori dalla finestre e vedere che il cielo non è più lo stesso, che il pane non è così fragrante, che il vino non ha più lo stesso sapore. Perché da oggi questi piccoli gesti quotidiani s’infrangeranno nel ricordo dello spettro di una morte insensata, voluta da chi vede nell’occidente un diavolo peccatore, spinta da un occidente colpevole e fratricida. Se le democrazie nazionali europee sono le rappresentanti elette dei propri popoli, le decisioni sugli equilibri internazionali hanno un peso che c’impone, senza troppe scuse, di guardarci le mani e di decidere cosa farne di quel sangue che le macchia. Si è alzata una nuova alba sull’Europa occidentale contemporanea, un nuovo giorno che scinde ognuno di noi in un pluralismo di idee, di rimorsi, di dubbi e incertezze. La notte ha preteso le lenzuola di un popolo per coprire l’orrore di un sangue che è anche il nostro.
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