Soliloquio

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Sono le sensazioni che più non capisco, credo di aver perso il conto dei giorni, ormai è tutta una routine, mi alzo e il cielo plumbeo mi irride, con una tazza di caffè fumante tra le mani poggio il palmo sulla finestra, quasi volessi toccare l’acqua, pioggia che bagna e che lava, vorrei che mi purificasse, ma tra me e lei c’è il solito vetro che aprire non posso.

La guardo scorrere in gocce, le une sulle altre, unirsi e dividersi, scontrarsi, diventare grandi e  rimpicciolirsi, vorrei che quelle gocce mi bagnassero, mi inondassero, che mi dessero una scossa; resto con la mano sul vetro, fissa, immobile, con ogni probabilità non l’ho mai spostata o forse la poggio di giorno in giorno nello stesso identico punto; non sono nemmeno sicuro che siano passati dei giorni, magari sono io, sfasato, che questa mattina non riesco a ingranare, che mi immagino di essere immobile davanti alla finestra della mia camera, a scrutare l’orizzonte, pensieroso, assorto nella mia mente a pensare al tempo che scorre inesorabile, arrivando a credere che questo ticchettare intransigente mi sia nuovamente sfuggito, proprio ora, e ora, e adesso, ancora, e ancora e ancora, che si sia duplicato, raddoppiato, che sia scorso mentre io sono rimasto immobile davanti a questo vetro segnato da rivoli verticali di acque celesti; la mano resta ferma e noto nel riflesso una consapevolezza di presenza, con l’immagine di me che dimostra più essenza dell’originale, mi specchio nei suoi occhi e vedo il gomitolo d’incomprensioni e non soluzioni alle mie spalle, una matassa ingarbugliata e apparentemente irrisolvibile; più bandoli alle cui estremità scalciano con irruenza e fastidio le criticità della mia sopravvivenza; nessuna preoccupazione sul mio volto, nessun cruccio, né ansia né terrore, un apatia omogenea che mi sorregge senza nulla chiedere. È finito il caffè e anche questa giornata volge al termine, senza soluzione di continuità.

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