Ci sono storie che iniziano dalla fine e narrazioni che pretendono di raccontare quello che c’era prima. Prima, prima, prima. Questa, invece, è la spiegazione di ciò che è oggi, in questo attimo fuggiasco il destino. Quello di un incontro casuale, ricercato e voluto, eppure non programmato. Un destino realizzatosi grazie a un cellulare, una ricerca, un’amicizia, un viaggio, un sogno, un calcolo matematico, un chiudere gli occhi, un salto nel vuoto e… La speranza di saper volare.
Il telefono squilla nel delirio quotidiano tra politicanti, associazioni, cittadini lamentosi e lamentanti. Tra grida di giubilo, accuse, pianti e farneticazioni. Una giornata di prassi quotidiana, tra “rigaggi” improbabili, ricerche impossibili e articoli inconcepibili. Una giornata da giornalisti, parassiti del globo terracqueo dell’informazione. Il numero visualizzato è di quelli che non senti spesso, proprio perché hanno la straordinaria capacità di farsi sentire solo se hanno veramente qualcosa da dire. E tanto basta. Un suggerimento, un consiglio, un avvistamento. Colgo la palla al balzo e mi getto a capofitto nella verifica trattenendo con forza l’uscio del sogno ad occhi aperti. Una porticciola minuta, ma che se spalancata lascia l’uomo in balia delle proprie passioni. Libero di vivere una vita ad occhi aperti che non è quella reale. Una costruzione trasognata del sé al di fuori del qui e ora. Un danno incalcolabile per la stabilità della mente umana. Punto i piedi e mi sforzo di tenere chiusa quella porticciola. Ci vuole molta, forse troppa, fatica. Chiamo. Scrivo. Mi informo. L’orologio ticchetta dannatamente lento. Appunto le informazioni. Capisco e studio un piano. Un progetto solido. La solidità non è affar mio. Opto per un progetto di massima. Manco male cadrò senza troppo dolore. La porticciola si socchiude e lascia trasparire qualche immagine del «potrebbe essere». Comincio a convincermi del «se fosse». Che danno! Lo so. È un azzardo, un dannato sbaglio. Un dolce, dolcissimo errore. O forse una cura? Prendo una decisione. Bus. Treno. Macchina. Treno. Vaporetto. Macchina. Cancello. Non ce la faccio più: le braccia cedono, la porticciola si spalanca ed è subito film. Il destino ha giocato ai dati e ho perso al suo gioco. Firmo. Punto, set e partita. Varco la porticciola.
«Ciao sono Haydée. Giochiamo?»
«Sì».
Cancello. Macchina. Vaporetto.
Treno. Macchina. E di nuovo a casa.
Haydée. A presto.