L’ossessionante, persistente e ripetitiva necessità di portare l’acqua al proprio mulino è una naturale propensione dell’uomo. Sembra una necessità inconscia e forse ne è bisogno primordiale. Eppure dalla modernità alla contemporaneità quest’acqua non è più cristallina, si è prima intorbidita di capricci, poi sporcata di preconcetti e infine inquinata di superficialità. Non è più un’acqua che mira a sollevare e rinvigorire l’uomo con i suoi nutrienti, le sfide tecnologico-scientifiche-filosofiche-culturali. È diventato un flusso di apparenza, di immagine costruita e privata di “nobili” interessi, di scopi antropologici, di progresso dell’umanità. L’acqua al proprio mulino è oggigiorno usata per fissare e inchiodare al qui e ora la nostra immagine destinata alla frenesia di un mondo che si nutre di istanti di apparenza, per dire di essere oggi, per affermare un’esistenza momentanea, un’esistenza effimera. Solo a immagini, senza fatti sostanziali, appoggiandosi al concatenarsi di occasioncine, realizzando malamente l’apparenza della nostra raffigurazione. Perché la nostra volontà è abulica.