17022022 – La Gegia

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Matilde, mia figlia, vuole la colazione. La chiede a gran voce dal suo letto. Una radiosveglia segna le ore 06.20, l’orologio da polso geolocalizzato le 06.22. Tra dieci minuti le tapparelle del soggiorno si alzeranno senza che io muova un dito; miracolo della tecnologia moderna. Tra 40 minuti suonerà la sveglia. L’ultima volta che ho guardato l’ora prima di addormentarmi erano le 01.40. Avevo chiuso Netflix proprio in quell’istante. Per decisione imposta. Si stava facendo troppo tardi. Non potevo iniziare una nuova puntata di “Archive81 – Universi alternativi”. 

Porto Matilde sul divano. Ha due anni e mezzo, più o meno; non sono ferrato sul calcolo delle mensilità. Le preparo la colazione: latte, senza cacao; perché è anomala. Senza biscotti; perché è anomala. Né troppo freddo, né troppo caldo; perché alla mattina è giusto cagare il cazzo visto che la vita, al momento, ti ha dotato di innata perfidia e mirabile bellezza concentrata in un’ottantina di centimetri scarsi.

Accendo la macchina del caffè; a lei è concesso di scaldarsi prima di fare il suo mestiere. Una sorta di saluto al sole per macchine cibernetiche degli anni ’20 del ventunesimo secolo. Bip, poi un rumore sordo introduce l’attivazione della pompa dell’acqua e il click dell’accensione della resistenza. Borbotta. Raggiunge in pochissimi secondi la temperatura idonea a estrarre i preziosi aromi dai chicchi di caffè che riposano docilmente nel suo massiccio ventre. L’interno gorgoglia e tutti gli ugelli vengono percorsi da acqua calda; caldissima. È la sua beauty routine mattutina.

Nel frattempo mi si attacca alla gamba sinistra “La Gegia”. Come la Gegia di “Amanti miei”, commedia sexy all’italiana diretta nel 1979 da Aldo Grimaldi. Solo che qui non c’è niente di erotico; nemmeno gli ansimi che fa “la cana” – come gergalmente la chiamiamo tutti noi – mentre si struscia alla ricerca di cibo. 

Con il nero succo in tazzina di vetro in una mano e una fetta di pane e marmellata nell’altra, mi piazzo innanzi alla portafinestra del salotto. Le tapparelle sono su e vedo tra il vapore del caffè che, fuori, sarà una bella giornata. Mi chiedo se lo sarà anche qui, dentro.

È una di quelle mattine in cui hai voglia d’altro. Le scadenze del lavoro premono e ho voglia di procrastinare. «Se faccio tardi… Ciao». Diceva Quelo, mitico personaggio di Guzzanti, Corrado.

Se sposto questo appuntamento e in tre ore faccio queste cose qui, mangio un boccone al volo, Mery va a prendere Matilde, io per le 15.00 ho finito. Vado sullo Stivo.

Gegia abbaia. La pensiamo alla stessa maniera. È il 17 febbraio 2022 e solo due giorni prima ha nevicato. La cima è innevata con circa 40 cm di neve. Sarà un giovedì pomeriggio parecchio interessante.

Visto il tardo orario di salita mi preparo macchina fotografica, drone, treppiede. Potrebbe essere l’occasione per qualche scatto decente.

Metto tutto nello zaino insieme a un cambio, acqua e viveri. Mi porto ramponi e ciaspole.

Alle 15.10 sono in macchina in direzione “Ai Piani” sopra S. Barbara in Velo. Quota 1.170 m slm.

Alle 15.24 ho già parcheggiato. Mi sto mettendo gli scarponi e preparo Gegia che è con me. Felice di essere sulla neve. 

In quel mentre fanno ritorno due coppie di amici. Chiedo loro qualche informazione sulla salita al rifugio.

«Noi non ci siamo arrivati. La neve è ancora troppo fresca e non c’è una traccia ben definita. Passare dalla malga è stato impossibile e abbiamo deciso di rincasare. Credo – mi dice uno della comitiva – che forse si riesca con fatica passando sulla cresta – di nuovo –  che essendo spazzata dal vento ha un deposito di neve minore».

Faccio tesoro dei consigli e mi preparo ad una bella faticata. Valuterò quale sentiero percorrere a tempo debito; si comincia a macinare metri di dislivello.

All’inizio del sentiero per lo Stivo – impronte di molti passaggi

La temperatura non è malvagia. Ci sono 5°C e c’è un bel sole che scalda. Solo qualche velatura di nuvole leggere in lontananza. Fin da subito ci si deve mettere le ciaspole. La prima salita è sempre picchiarella. Non troppo difficile, ma ti spezza subito il fiato. Ti porta alla realtà dei fatti: questa è una montagna, si fa fatica, non cazzeggiare. Il messaggio arriva forte e chiaro e quando sono a “Le Prese”, località posta al limitare della linea degli alberi, mi fermo un secondo. Bevo un po’ d’acqua e lascio libera Gegia dal guinzaglio. La neve è ancora soffice. Il sole e le temperature miti non l’hanno ghiacciata. Gegia sprofonda fino al garrese. È felice come non mai. Libertà, spensieratezza, natura. È commovente vederla saltare. La sua foga e la sua gioia sono le stesse che vedo in Matilde quando si fa prendere dalla meraviglia. Ogni parte del loro corpo si traduce con il sublime stupore della perfezione. È un istante che sanno fare proprio e conservare nel loro animo per un tempo indefinito, cosa che noi adulti – o disincantati umani – non riusciamo più a compiere. Abbandoniamo il nostro frammento di perfezione nelle ansie, nei timori, nelle preoccupazioni di un domani che non vivremo mai perché prigionieri di un’inquieto, fugace, intangibile e perentorio hit et nunc.

Dalla cresta si vedono scendere un paio di tracce lasciate dal passaggio di sci d’alpinismo. Mi faccio convincere da un sesto senso che difficilmente ha la completa ragione e, però, il merito di avermi riportato sempre a casa sano e salvo. Almeno fino ad oggi.

Le tracce che salgono lungo la cresta meridionale

Le quattro zampe motrici di Gegia sono molto più spigliate delle mie pantofolose ciaspole. Si sale, lentamente. Prendiamo quota e a poco a poco alle nostre spalle il Garda ci lancia i suoi sbrilluccichii solari pomeridiani.

Faccio fatica. Le gambe sprofondano almeno di 20/25 cm nella neve nonostante l’attrezzatura, nonostante la minitraccia. È una fatica infinita che prende il fiato, la schiena, le gambe. Gegia è rilassata. Si trova nel suo mondo, in pace con i sensi, sicura del suo corpo. 

Non ho la sua forza mentale e sto accusando il colpo. Se continuo così mi tocca tornare a casa. Se tengo questo ritmo mi perdo il tramonto. 

Scivolo. Gegia abbaia. È più avanti di me di almeno una settantina di metri. Sono fermo, non ho perso quota, ma sono sprofondato in una buca tra due sassi coperti di neve che era impossibile vedere. Gegia mi corre incontro. Si siede e mi lecca la fronte. Sento che mi devo fermare un minuto.

Se continuo così mi tocca tornare a casa. Se tengo questo ritmo mi perdo il tramonto. Me lo ripeto mentre cerco di portare la respirazione a un ritmo più calmo. Quando ce la faccio mi giro, porgo le spalle alla vetta e guardo in basso. A valle le case sono leggermente coperte dall’umidità che risale dal terreno. L’ombra della Rocchetta, che dirimpetto allo Stivo solletica il cielo offrendo il profilo perfetto per un imminente tramonto alpino, sta portando la Busa al suo imbrunire. Si accendono le luci, si accende la sera che poi sarà notte. In quota i raggi del sole sono oramai perpendicolari alla montagna. Seguirà una luce calda, il tramonto e poi le stelle brilleranno sulla neve a indicare la via del ritorno.

Dalla cresta guardo a valle e ritrovo le energie

Gegia abbaia. Con uno sforzo notevole esco dalla prigione di neve e guardo nuovamente alla vetta. Ritrovo la lucidità perduta. Mi dico che non è una competizione che “la montagna è un mezzo e non un fine […] e tramite la montagna conosco me stesso, cerco me stesso” – W. Bonatti. Un pensiero che condivido. Totalmente.

Il respiro è intenso ma regolare e la fatica è linfa energetica che muove le gambe, ne dissipa lo sforzo sostenendo quel me che metro dopo metro sto ritrovando e conoscendo. Sono in quota; a poco meno di 2.000 m slm; a circa 30 metri di dislivello; a non più di 200 metri dal rifugio P. Marchetti. S’infiamma la neve che dal freddo candore si tinge delle tonalità del fuoco.

Sotto è notte, io vivo nel giorno; lontano dall’inquinante confronto umano della ritmica quotidianità.

L’ultimo tratto lo sento nelle gambe, nel sudore, nelle fitte della fatica muscolare. Eppure avanzo senza problemi. Seguo una traccia di sci, Gegia una poco più in basso. 

Verso la meta mentre il sole sta per tramontare

Quando arriviamo al rifugio il sole è nella migliore delle posizioni. Riesco a fare qualche scatto fotografico e a fare una piccola ripresa con il drone. 

Le porte del rifugio si aprono. Troviamo i volti sorridenti di chi ha nel cuore l’accoglienza, di chi è conscio della fatica, di chi sa che ogni persona ha un prezioso bagaglio che nella condivisione reciproca si arricchisce di nuove memorie. Nel tepore della sala principale, diffuso delicatamente dalle splendide maioliche della stufa a olle io e Gegia ci rilassiamo. Siamo i soli avventori; viziati di saluti e sorrisi di chi in questi giorni aiuta il gestore a tenere aperto e operativo questo balcone sul mondo. Dalla finestra il tramonto ci commuove, penetra sotto pelle.

Giù è sempre più buio.

Beviamo, parliamo, giochiamo e trasognamo. Quando solo un sottilissimo filo di luce resta a disegnare l’orizzonte decidiamo di incamminarci per la via del ritorno.

Partiamo ebbri di leggerezza, armati di una luce in testa, ciaspole e scarne energie.

Ora anche la notte è in quota, le stelle rischiarano la neve e percorriamo con attenzione la via del ritorno.

Iniziamo la discesa

Non ho con me i bastoncini e mi capita più volte di perdere il controllo delle ciaspole. Credo di seguire il percorso dell’andata, ma mi accorgo a circa metà della “prima” discesa, quella verso “Le Prese” che è un’altra traccia quella che sto seguendo. Poco male. Gegia ha delle difficoltà che non avevo considerato. Nel buio della notte i suoi occhi non riescono ad essere agili e performanti come quelli umani, sebbene in testa io abbia una torcia piuttosto potente. In quelle condizioni la neve fresca non viene sentita come solido appoggio. Gegia percepisce il vuoto sottostante. È lenta e goffa nei movimenti. A un certo punto si porta tutta a sud verso la cresta a precipizio, là dove il terreno non è coperto da neve, dove il vuoto è pressoché a pochi centimetri dalle sue zampe. Le grido di starmi vicino. Capisce la mia preoccupazione, ma la sua paura è istinto di sopravvivenza. Forse sono io quello nel posto sbagliato. Risalgo qualche decina di metri verso la cresta, verso Gegia, verso il vuoto e il buio. La chiamo a me e lei arriva. La abbraccio forte e le dico di stare tranquilla. Le sue zampe stringono le mie spalle. La guardo e le dico di starmi vicino, di stare dietro di me. Le mostro l’impronta che lascio nella neve con le ciaspole, le faccio vedere che è solida, che è valida. 

Troviamo una nuova sintonia.

Ci capita spesso a me e Gegia. La vita ci scorre a fianco e adagiamo i nostri culi nella comodità. Lei la sua, io la mia. Siamo uniti da un legame ancestrale. È come se ci fosse sempre stata. Spesso non sono alla sua altezza e non me ne occupo come meriterebbe. Avrebbe tutte le ragioni per non ascoltarmi, per non seguirmi, per defezionare da me. Eppure, in montagna, insieme, ritroviamo sempre la medesima frequenza. Risuoniamo come un solo essere.

I miei passi, sono i suoi, le mie fatiche le sue, le mie incertezze, le mie sicurezze, le mie decisioni siamo noi. È un ritmo nuovo, sicuro, solido. Raggiungiamo “Le Prese” e da lì procediamo spediti e ritrovati verso l’inizio del sentiero. Ci imbattiamo in due escursionisti della notte. Non hanno la torcia in testa; quasi non li vedevamo. La loro guida sono le stelle e la luna che di lì a poco avrebbe riflesso i raggi solari in un tenue chiarore. 

Più sotto altri due escursionisti. Questa volta armati ai piedi di sci d’alpinismo e torce d’ordinanza in fronte. Ci fermiamo e ci salutiamo; mi chiedono delle informazioni sul sentiero, sulla neve, sul rifugio. Le nostre strade si dividono senza che i nostri occhi si siano mai incrociati, abbagliati dai fari gli uni degli altri. Non ci saluteremo per strada l’indomani consci di essersi incrociati sul medesimo sperone di roccia. Ma, in quei pochi minuti, abbiamo suggellato un legame di reciproco rispetto consci che ognuno di noi ha affrontato o sta per affrontare un’intima esperienza di libertà.

Mentre i fari dell’auto illuminano il bosco, la stanchezza gioca a scacchi con l’emozione del successo e la nostalgia tipica della fine di una piccola avventura.

2 comments on “17022022 – La Gegia”

  1. Solo chi ama gli animali riesce ad avere una connessione con essi come quella che hai con Gegia. Bellissimo racconto d’esperienza che racchiude in se più di una lezione di vita.

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