Il telefono vibra. È sera. Un messaggio su whatsapp.
«Oh, va bene se la prossima volta viene anche il mio vicino? Non c’è mai stato». Mi chiede El Vedrèr.
«Sì certo». Rispondo.
Mi sono dato questa sfida, «12 volte la prima», per riuscire a veder concretizzarsi una mia idea. Ne sentivo e sento la mancanza, perché questo non è un mondo per progetti; è un mondo per prodotti. Di tante idee che mi attraversano la mente negli ultimi anni nulla si è realizzato e non è poco il lavoro che, ugualmente, è stato speso per provare solamente a dare il via a questo o quel progetto. Le idee che non muovono vagoni di soldi restano ad appannaggio di chi ha un nome “commercializzabile”, che così, grazie a quel nome, riesce a muovere l’economia.A noi poveri emarginati resta la piccola e mai banale intraprendenza personale. Ecco qual è l’origine di queste ascese al monte Stivo affrontate di mese in mese e poi qui raccontate. Ecco perché, vedere che stanno aumentando i compagni di avventura è assai importante e gratificante.
Quanti soldi muove questo progetto? Birre e grappe al rifugio, niente di più.
Passa qualche giorno e mi arriva un nuovo messaggio.
«Allora siamo d’accordo che ti aspettiamo qui e andiamo al parcheggio tutti insieme, va bene?» Scrive El Vedrèr
«Certamente». Rispondo.
La mattina del 16 aprile passo a prendere El Vedrèr e Gazza. Ho avuto il piacere di incontrarlo solo un’altra volta prima di questa escursione. Era stato durante un aperitivo informale a casa de El Vedrèr. Già lì mi aveva fatto una buona impressione. Nel rivederlo ho subito riconfermato quel sesto senso.
Ci siamo fiondati in macchina direzione passo S. Barbara e ben presto, dopo poche curve, l’umore mattutino era dei più buoni. Più salivamo e più lasciavamo scorrere nello specchietto retrovisore i tornanti, più ci sentivamo coesi. Fare gruppo è importantissimo in ogni escursione.
Abbiamo deciso di ripercorrere il sentiero dell’ultima volta, quello che guarda verso la Busa e che passa per la malga. Volevamo che per tutti noi fosse un’esperienza piacevole, soprattutto per Gazza.
Dal parcheggio ci siamo subito diretti verso le Prese. Quel primo tratto resta per tutti, inevitabilmente, un battesimo del fuoco, che si palesa nelle gambe solo oltre i 1800 metri di quota. Durante il primo tratto abbiamo spiegato a Gazza lo Stivo. O quello che per noi era stato fino ad allora questa bellissima montagna.
Una maestra severa che ci aveva piegato, costretto a trovare il meglio di noi, le nostre massime capacità di giudizio nei confronti di quel noi assopito e della natura tutt’attorno. Una maestra generosa, perché non si era risparmiata panorami mozzafiato, colori incantevoli, profumi, incontri e storie da raccontare per tutta la nostra vita.
A Gazza ho così spiegato che questo sentiero, come un canto di Sirena, ti stregava nella sua apparenza docile. Eppure, nelle pieghe delle altimetrie, nascondeva l’essenza pura delle Alpi. «All’inizio bisogna andare piano – mi sono sentito di ricordare -. Pole pole (piano piano in swahili), mantenendo un passo costante e non troppo sostenuto, un passo “lento ma violento” che scarpone dopo scarpone ci porterà in vetta». Si fa presto a parlare. Un po’ meno presto a convincersi che sia così.
Io e El Vedrèr battiamo il ritmo, mentre Gazza, illuminato dalla gioia della novità, ci segue a cuor contento. Forse, troppo sicuro di noi, che lì ci siamo passati più volte. E noi, troppo sicuri che quello che stava tenendo, per lui, fosse il suo “pole pole”. C’è sempre da imparare, ovviamente a spese di chi non vuol capire. In questo caso, noi.
Saremmo dovuti andare leggermente più piano, mantenere un ritmo più lento e più violento. Di sicuro Gazza avrebbe faticato meno.
Quel che avremmo dovuto fare, non è però quel che abbiamo fatto e, parere personale, è quel che abbiamo fatto che ci ha impresso con il suo marchio a caldo, ustionante di fatica e sudore, un altro ricordo indelebile, fissato per sempre sulla nostra pelle. Allora forse, farsi spiegare continuamente dalla montagna che cos’è che siamo, ed ogni volta a suo modo, è il sentiero giusto da percorrere. Sempre con giudizio, sempre portando rispetto a questi colossi che ci permettono di vivere quella parte di noi che spesso e ingiustamente teniamo segregata nelle infinite problematiche del vivere e dell’incedere quotidiano.
«Gazza, tutto bene?» Chiede El Vedrèr.
«Sì, faticoso, ma bellissimo». Risponde Gazza entusiasta, mostrando i primi evidenti segni di fatica, la fronte segnata da alcune gocce di sudore e un immancabile sorriso che esprime vera felicità e quel comprensibile “boia di un Giuda quando è che si arriva”.
Non è disperazione, la sua, è voglia di andare avanti. La vetta la vuole raggiungere e non vi rinuncerà. È determinato e non ha paura a dichiararlo dicendoci pure che, noi altri, possiamo andare avanti, che lui prenderà fiato quando necessario. Fiato per avanzare. Fiato per far sua la cima.
Da dopo le Prese la salita continua a un buon ritmo. Il Garda alle nostre spalle è come sempre un incanto magnifico. Il cielo è velato di bianche nuvole di passaggio. Il sole scalda, ma non troppo e in quota, l’ombra e il vento fresco si fanno sentire. Si suda, si ha il corpo pervaso dal calore muscolare, infuocato per lo sforzo fisico. Mentre fuori, la faccia, il muso, le mani, sentono il fresco.
Nella fatica si sta bene. Ci si purifica, si butta via tutto il superfluo. La quota aumenta e di batimetrica in batimetrica siamo già ben oltre la malga. È un punto cruciale. Da qui le energie servono. Il versante s’impenna e tutto quello che non hai dato lo devi tirare fuori. Fiato, principalmente, e poi muscoli e, infine, testa.
Questa volta mi sento maggiormente in forma. Commetto l’errore di perdermi nel viaggio, sono soprappensiero, felice di essere esattamente dove sono. Quando torno alla realtà vedo che sto macinando metri su El Vedrèr e soprattutto su Gazza. Mi fermo, li aspetto, poi riparto. Mi fremono le gambe. Non riesco a non andare. Così faccio l’ultimo tratto andando e fermandomi. Continuo così fino agli ultimi 50 metri di dislivello. Mi fermo e li aspetto definitivamente.
Gazza è sfinito. Sta sentendo tutta la salita. Appena mettiamo piede al rifugio, però, i volti si distendono per quel che possono. Felicità, soddisfazione, emozione. Gazza è un turbinio di emozioni. Si vede. Non serva che lo dica. E non lo dice. Si capisce. Parlano gli occhi, parla il suo corpo. Passiamo qualche minuto a rifiatare, a prendere consapevolezza della piccola impresa, per alcuni nuova, per altri ripetuta, eppure nuova anch’essa in questa sua ulteriore versione. Guardiamo giù, la valle, il Garda, all’orizzonte le Dolomiti di Brenta. Ci sentiamo ricchi come non mai.
Giusto il tempo di cambiarci e ci sediamo per quel rituale che oramai è tradizione. Birra con grappa. Sigilliamo questa nuova sfida, questa nuova amicizia, questo nuovo gruppo. Sigilliamo un nuovo traguardo e progettiamo il domani. I nostri corpi recuperano energia e la mente trova linfa per sognare. Si parla di quel che sarà, delle prossime sfide che si possono fare, di altre vette da conquistare. Allunghiamo il tutto con un delizioso tagliere e bissiamo birra e grappa.
Si parla in armonia, disarmati di tutti i pregiudizi e di tutte le paure. Si parla con onestà e sincerità. La montagna fa anche questo.
Altri avventori raggiungono la vetta. Ci si saluta tutti. Si scambia una battuta, una frase, un cin. Là a 2.000 m slm si è fratelli di fatica, sorelle di pace, amici d’impresa: avventurieri del proprio io più profondo.
Saldiamo il conto e…
«Se avessi bevuto quel che avete bevuto voi sarei più che felice!» Ci grida Albi.
Ha ragione, ma non è quel che abbiamo bevuto. È quello che abbiamo trovato lungo la salita, è quello che abbiamo affrontato per arrivare lì, al Marchetti. È quello che abbiamo trovato e che continuiamo a trovare grazie ad Alberto e al suo Staff. Perché se siamo felici è perché lassù c’è chi sgobba e si fa il culo a prescindere dal tempo, a prescindere da noi che a valle ci intossichiamo nelle nostre vite.
«Andiamo in vetta?» Chiedo.Nessuna obiezione. Facciamo ancora un po’ di salita. Piccolezze in confronto a prima. Nel frattempo il cielo si è fatto più coperto e in pochi minuti siamo alla croce. Innanzi a noi la Valle dell’Adige, Alpi a non finire, vette e cime che giocano a nascondino con cumulonembi bianchi e grigi in un gioco visivo che incanta e affascina. È la prima volta alla croce sia per Gazza che per El Vedrèr.
«Ne valeva la pena?» Chiedo.
Gazza ringrazia mentre il silenzio della fine sovrasta tutto e tutti. La pace della quota, che non è cieco silenzio, ma rumore che protegge, è la migliore delle colonne sonore che potessimo volere.
Firmiamo il libro di vetta e scendiamo a valle. Decidiamo di passare dalla cresta meridionale. Quella vertiginosa. Quella di quella volta lì. O di quell’altra volta. La sentiamo nelle ginocchia e mentre si susseguono gli aneddoti sulle nostre salite da quel versante le nuvole coprono l’azzurro e liberano le prime goccioline di pioggia. Poche sparute gocce che ci fanno compagnia a qualche centinaio di metri dalla macchina.
Si chiude così la quarta salita allo Stivo.
Bellissimo racconto, molto poetico e intenso. Complimenti.