La cosa che più mi piace, quando arrivo in vetta, su di una qualsiasi cima, è la possibilità di avere lo sguardo libero a 360°. Il mondo, dall’alto, è più leggero, privato di quei rumori, odori, routine, doveri, piaceri, vizi, regole, che poi, paradossalmente, vado comunque cercando e di cui mi nutro giorno dopo giorno. Eppure, quel tempo sospeso che vivo lassù è impareggiabile. Per me ha lo stesso effetto di essere in mezzo al mare, quando si è circondati solamente da acqua, vento e vita marina. Un’altra cosa che mi piace delle montagne sono i rifugi e i loro gestori. Il loro volto e le loro parole sono un saluto cordiale di chi la Natura la sa rispettare e che accolgono l’avventore con quei pasti frugali e ancestrali che rinfrancano corpo e spirito. Sono punti di riferimento per chi si avventura su quelle pendici. Sono persone che pesano le parole, che hanno l’indole del fare, che amano il “qui ed ora” della loro esistenza. Ogni gestore è accompagnato da persone a lui vicine che lo aiutano nel difficile compito di garantire l’operatività del riparo ad alta quota che hanno in custodia. E ancor più di gestire quel gruppo di umani che la montagna la vuole instagrammare, pretendendo facili accessi, servizi al pari di una metropoli, cibo e bevande gourmet. Non li invidio e, a dire il vero, quando li trovo nei vari rifugi, mi fanno storcere il naso. Non sono molto diplomatico in questo, ma se a certe quote ti lamenti del contingentamento dell’acqua potabile, della scarsa segnalazione del sentiero, che “dal parcheggio non c’era scritto fossero terra, sottobosco e sassi” da calpestare, che “a Milano l’aperitivo costa poco di più, ma è tutta un’altra cosa”, che “da Cracco la polenta e coniglio è diversa”, che “non ci sarebbe del pesce al vapore?”, che “come si fa nel 2022 a non avere un buon segnale internet?”, che “avevano messo bel tempo perché si sta annuvolando in fretta e fa freddo che siamo a luglio?”, che “sul sito non c’era scritto che il rifugio dista tre ore su strada dissestata e io con i tacchi come faccio?”, allora il problema non è la montagna, il rifugio, il gestore. Il problema è una certa dose di ignoranza, arroganza e prepotenza che pullula in taluni individui.
Un rifugio chiuso, per me, è triste; come se fosse vuotato della propria essenza di vita.
Tutto questo per dire che dall’uno al 31 di maggio, il Marchetti, è rimasto senza “Albi&Staff”. Chiuso. Forse anche per questo ho tardato di molto la quinta ascesa alla vetta. Così, di rimando in rimando, ho trovato la quadra il 27 maggio con partenza nel tardo pomeriggio da passo Bordala in fedele compagnia de El Vedrer. A cavallo del mio Malaguti 250cc, stanchi e affamati ma vogliosi di tornare lassù, abbiamo raggiunto l’inizio del sentiero. Intorno alle 16 avevamo entrambi finito di lavorare. Tempo di prepararsi e alle 17.00 eravamo a passo Bordala. Il sentiero non ci era nuovo perché lo avevamo già percorso un paio di anni fa. Il tracciato inizia addentrandosi nel bosco con una leggera pendenza per circa un chilometro. È il sentiero Sat 623 che ti immerge nella dimensione montana in un verdeggiante faggeto per poi, quasi all’improvviso, mettere pendenza a ridosso della parete est della corale montuosa. La stanchezza delle ore lavorate si fa sentire. El Vedrèr, ha da poco finito un massacrante turno di 9 ore durante le quali ha ben pensato di saltare il pranzo. Io ho le gambe mollicce, non troppo fluide, per una 10km fatta il giorno prima. Per fortuna il mio lavoro, almeno, non è massacrante. Mi stanca di testa.
Stiamo salendo sul costone e il panorama comincia a farsi incantevole. L’Adige e la Vallagarina si estendono nel fondovalle dissimulando la loro complessità in un’immersione verdeggiante che dalle strade e vie delle città e dei paesi sottostanti non si riesce ad apprezzare con tanta bellezza e visione d’insieme. Si sale e si suda. Le gambe avanzano e dopo circa un’ora siamo in quota. abbiamo raggiunto Cima Bassa a 1706 m slm.
Poco prima di questa pre-vetta El Vedrèr accusa il colpo. È senza energie. Simpaticamente lo mando a quel paese per non aver mangiato e gli offro una barretta energizzante di quelle ricche di fibre e frutta secca.Ben presto ritrova un certo ritmo e procediamo lungo il sentiero Sat 617 verso lo Stivo. Siamo in cresca e proseguiamo lungo il versante orientale. La stanchezza è solo percepita. Il passo è buono e siamo in anticipo sulla tabella di marcia segnata dai cartelli. Alle volte la testa ci dice che non siamo in grado di fare qualcosa e noi stoltamente ci crediamo. Come potremmo non essere sicuri di noi? Lo sport, però, insegna che là ove la mente non supporta il corpo, il corpo non farà mai quel passo in più che gli stiamo chiedendo.
Insomma, se crediamo in noi stessi, se siamo i primi a pensare di poter raggiungere un obiettivo, perché lo abbiamo preparato, perché abbiamo studiato, perché ci siamo allenati, perché sappiamo a conti fatti che ce la possiamo fare, allora ce la faremo sicuramente.
L’ho spiegato a El Vedrèr e nonostante qualche pensiero sporadico nel voler cedere alla fatica, un passo dopo l’altro siamo arrivati all’ultimo bivio.
Restare sul Sat 617, raggiungere il Marchetti e poi la cima, o prendere il Sat 617 B tutto in cresta fiancheggiando i geroni e arrivando alla croce e poi al Marchetti? Abbiamo optato per l’ultima fatica, quella del 617 B. Ne è valsa la pena perché ti porta a vedere un lato dello Stivo che difficilmente si guarda. È la sua faccia più ostica, il suo versante più spoglio, completamente roccioso, vertiginoso, a picco su burroni e precipizi che conducono in una lunga valle cosparsa di sassi, ghiaia; i geroni, appunto. È il lato più impervio e più “selvatico”.
A pochi metri di dislivello al di sotto della croce si è alzato un forte vento. Improvvisamente un gruppo di nubi ci ha avvolto abbracciando noi e la cima.
Sudore, respiro affannato, gambe affaticate e un cielo che da terso si fa grigio luminescente, attraversato dall’ombra del sole e da qualche sporadico raggio. Il forte vento ci disequilibria a pochi passi dal baratro. Una delle migliori fasi finali di ascesa allo Stivo.
Alla croce, immancabile, ci siamo scattati la foto di rito e poi giù a sedersi sulle panche del Marchetti. Finestre chiuse, coperte dagli scuri bianchi e blu e tanta solitudine. È bello il silenzio e l’intimità che si trovano in quota senza nessuno nei paraggi, ma quel calore umano che rende un rifugio il cuore caldo di ogni escursionista ci è proprio mancato.
Ci eravamo però attrezzati. La Vedrera, moglie del nostro infaticabile seguace, ci ha donato due panini e due lattina di birra tenute in fresca in una piccola sacca termica.
Ecco, ci siamo sentiti meno soli, anche se senza Albi&Staff.
Hai proprio ragione, cosa sarebbe la montagna senza rifugi? Per citare Boris Vian “Sulle cime più alte ci si rende conto che la neve, il cielo e l’oro hanno lo stesso valore”, io vorrei aggiungere che anche i rifugi hanno altrettanto valore.