Sei ore, dodici minuti e dieci secondi. Quindici virgola quarantuno chilometri, duemila zero sessanta chilocalorie consumate e millequattrocentoquarantuno metri di dislivello. È questo il resoconto stringato fatto di dati di una delle più belle escursioni che abbia mai fatto. La salita allo Stivo di giugno è stata avvincente, provante ed estrema. Almeno per noi che l’abbiamo affrontata. Al mio fianco El Vedrer e Gazza entrambi felicemente inconsapevoli di quello che stavano per compiere in quella lunga giornata. Li avevo preparati ad affrontare un consistente numero di ore di camminata e da quel punto di vista eravamo tutti mentalmente pronti. Ciò che invece ha messo gli animi a dura prova, che ha infiammato le gambe e arso il fiato nei polmoni sono stati i metri di dislivello.
Il 4 giugno 2022 ci siamo trovati per la mia sesta salita al Marchetti. Questa volta abbiamo voluto alzare il livello, così, in vetta, ci siamo voluti arrivare partendo dal lago di Cei (900 m s.l.m) in Vallagarina. Il tracciato prevede una prima salita impegnativa fino a cima “La Becca” a quota 1590 m s.l.m per poi continuare in cresta fino alla vetta dello Stivo. Un itinerario che ci ha fatto salire e scendere più volte per superare Carbonil, Cima Rocchetta 1643 m s.l.m, Cima Palon 1915 m s.l.m, Cima Alta 1847 m s.l.m, La Bassa Madonnina 1684 m s.l.m, Stivo 2.054 m s.l.m. Dalla croce siamo poi ridiscesi fino a S. Barbara 1168 m s.l.m.
Ci siamo organizzati nei minimi dettagli. Io sono salito fino al solito parcheggio a passo S. Barbara con la macchina e un casco. Lì alle 7.00 di mattina mi ha recuperato Gazza che a cavallo di una portentosa due ruote mi ha portato al lago di Cei dove ci stava attendendo El Vedrer. In questo modo, una volta giunti a S. Barbara, avrei accompagnato i due avventurieri alle loro rispettive moto.


La salita a “La Becca” è impegnativa. Pochi chilometri per un dislivello notevole. Subito le gambe si accendono e il fiato si fa regolare e intenso. C’è bisogno di ossigenarsi e di dare sostegno ai muscoli. Ben presto ti chiedi: «Ce la faremo?»
Arrivare a “La Becca” non è una passeggiata. Non è nemmeno impegnativo, ma se la tua meta è lo Stivo, 12 Km più a Sud con in mezzo altre cime da valicare, quell’inizio vertiginoso lo cominci a rivalutare.
A tre quarti della prima ascesa, quella a “La Becca” per intenderci, ci sentivamo affaticati più del dovuto. È un momento delicato per chi deve affrontare una lunga traversata in quota. Un pensiero negativo, un dubbio su se stessi e tutto diventa più intenso, difficile. Le porte della resa si spalancano e non è più una lotta per la conquista del percorso, ma una lotta mentale e psicologica. Diventa una guerra primordiale in cui le nostre sicurezze traballano, i nostri sogni possono frangersi contro la fatica e lo sforzo fisico. Si rischia di gettare le armi. Di arrendersi senza lottare. Si rischia concretamente di venir domati, mente e corpo, dai propri demoni. Si tratta di un pericolo reale, in quota come nella vita di tutti i giorni. Ecco perché a volte si legge di gruppi terrorizzati, bloccati su percorsi, sfiniti, vinti dalla fatica fisica e psicologica, su tracciati che non erano ancora pronti ad affrontare. Non per incapacità fisica, magari, ma per il connubio psicofisico. Imprescindibile nella vita, nella natura, in mezzo al mare, in vetta.

Cerco di rasserenare il clima di questa insolita “cordata” e ci immergiamo letteralmente in un mare di nuvole. L’incanto di essere al di sopra di una coltre intensa e fitta di candidi cumolonembi è impareggiabile. Si ha una sensazione di distacco dal reale. Camminiamo a bordo vallone nel vuoto del cielo. Riusciamo a raggiungere “La Becca” e ci prendiamo il tempo di una sentita pausa. Ci rifocilliamo con acqua fresca e frutta. Il caldo comincia a farsi sentire, ma pensiamo che il peggio sia passato. Lo è; ma stiamo sottovalutando il peso della fatica mentale, del caldo, dell’acqua che verrà a mancare sempre più.

Ci dirigiamo verso Carbonil, una località ad una quota inferiore in direzione Marchetti. Si tratta di un primo tratto particolarmente piacevole e non troppo impegnativo. Mentre lo affrontiamo rifiatiamo e ci rincuoriamo. Di lì a poco però la montagna esige il proprio tributo. Senza particolare preavviso s’innalza vertiginosa a strapiombo mentre il tracciato di cresta passa dal lato orientale, in Vallagarina, a quello occidentale, sulla Valle della Sarca. La prima cosa che si nota è la straordinarietà della Natura. I paesaggi incantevoli sono dominati dai misteri della fisica. Le correnti d’aria tra le due valli sono completamente differenti e, se da un lato si vedono le nubi di mezza quota, dall’altra il cielo è terso, limpido. A tratti qualche nube si sfalda e dalla parte bassa, lato orientale, segue le correnti ascensionali fino a raggiungere la quota vetta. Qui si sfilaccia in “fibranti” code voluttuose che valicano sul lato occidentale per poi dissolversi completamente dopo pochi istanti.






Procediamo mentre le ore del giorno si susseguono. Camminiamo in cresta e solo a tratti possiamo godere di qualche breccia boschiva che attenua il calore del sole.
Arriviamo a Cima Rocchetta con un ritardo sulla nostra tabella di marcia abbastanza considerevole. Da lì a cima Alta è tutto un saliscendi che ti inganna, che ti tormenta. Si ha l’impressione di essere arrivati alla cima e invece è un’illusione solida e concreta, un’anticima, poi un’altra e un’altra ancora. Tutte posizionate a nascondere la successiva. Prima della “Alta” c’è il “Palom”. Quando ci arriviamo siamo scoraggiati. Pensavamo di essere più avanti. Siamo affaticati, indolenziti, probabilmente confusi. Camminiamo da diverse ore e secondo i calcoli “di terra” saremmo dovuti essere più avanti. Il caldo è opprimente e l’acqua nelle borracce cola in gola e nel corpo senza sosta. Dosata, ma non risparmiata.






Finalmente all’orizzonte c’è cima Alta con la sua madonnina a guardare la Vallagarina. Vediamo i paesi sottostanti, le case, le zone industriali, il ritmo di una vita lontana. Il luogo che abbiamo lasciato per immergerci nella natura, in quota, al limitare dei 2.000 metri di altitudine. Nessuno lo ha detto, ma forse, il dubbio lo avevamo: ci eravamo illusi di scappare da qualcosa più grande di noi; eppure ognuno vi stava facendo i conti, passo dopo passo, proprio ora, in quel momento lì.
Si prosegue sotto il sole cocente. Siamo affaticati e appesantiti. Forse è la testa, forse è il corpo. Un primo sollievo generale ci pervade quando siamo alla madonnina di cima Alta. Si vede lo Stivo e, aguzzando la vista anche la croce. Un vento fresco ci circonda. Si respira a pieni polmoni. Mi sento bene. Stiamo affrontando una piccola grande sfida e lo stiamo facendo al nostro ritmo. Continuiamo ad avanzare, con costanza, con fatica. Non è scontato. Ci voltiamo e alle nostre spalle la catena dello Stivo – Bondone si mostra in tutta la sua bellezza. Si vede fino al Cornetto. Da un lato la Valle del Sarca e quella dei Laghi e dall’altra la Vallagarina. Noi, nel mezzo. In vetta, in silenzio. Parliamo poco, ammiriamo il paesaggio e ci guardiamo dentro.


Scendiamo in cresta. La prossima “cima” è “La Bassa Madonnina”, il nostro ultimo punto di partenza prima dell’ascesa finale al Marchetti. È difficile da spiegare, perché una discesa è pur sempre qualcosa di leggermente meno faticoso da affrontare rispetto a quando si sale: mentre stavamo raggiungendo “La Bassa Madonnina” invece di farci carico di nuova energia, la sensazione generale era di timore. Era chiaro che ci trovavamo nel mezzo di un calo psicologico concreto. In questo la montagna non fa differenza con la vita. Spesso ci capita di affrontare sfide difficili e impegnative, a volte programmate e a volte capitate. In quelle situazioni si spendono tutte le energie possibili, soprattutto mentali. Poi arriva un momento di calma, nel quale non riesci a recuperare. Hai la mente oberata di pensieri e avanti a te vedi solo i problemi futuri che potrebbero scaturire. Quelli eravamo noi. Più scendevamo di quota, più lo Stivo si faceva maestoso, inaccessibile, non adatto a tre pivelli come noi. C’era il timore di non farcela. A “La Bassa Madonnina” rifiatiamo. Facciamo la conta dei viveri e dei liquidi. Scarseggia tutto. Decidiamo di non prendere la variante di cresta (617 B) che avevamo preso il 27 maggio io e El Vedrer, ma di proseguire per il 617 canonico. Il percorso è più lungo e meno pendente.


L’ultimo dislivello mette tutti a dura prova. Siamo stanchi e assetati. Ci diamo sostegno reciproco, ci incoraggiamo ad andare avanti, a non avere fretta. Ci ricordiamo della strada fatta, del successo dell’impresa che stiamo per concludere. È un incedere lento, ma costante. Quando il sentiero svolta sul lato sud occidentale e ci mostra il Garda in tutta la sua sconfinata bellezza il cuore ringalluzzisce, l’adrenalina pervade il corpo con un’ondata di pelle d’oca che si fa viva emozione e commozione. In pochi istanti vediamo il rifugio.



Ci siamo. Tutta la fatica trasmuta, la testa si fa leggera. Stanchi; siamo provati, debilitati. Abbiamo commesso qualche errore di sottovalutazione: probabilmente poca acqua e qualche cedimento psichico di troppo. Questa volta ha vinto il gruppo, la forza reciproca, lo sprone che ognuno di noi ha dato all’altro. Il limite era nella nostra testa. Ce lo confermano i minuti a venire. Beviamo acqua fresca, tanta. El Vedrer e Gazza si mangiano un bel piatto caldo fatto da Albi & Staff. Godurioso. Insieme ci prendiamo le nostre classiche birre con grappa. Chiacchieriamo, ci rilassiamo e defatichiamo. Siamo in pace. Ci aspettano ancora quasi cinque chilometri in discesa fino a passo S. Barbara e la cosa non ci preoccupa. Ne siamo coscienti e vogliamo chiudere il percorso.
Salutiamo il Marchetti, Albi, i ragazzi e ringraziamo per l’accoglienza, per il loro lavoro, per esserci. Si scende con serenità ritrovata, con le gambe stanche, ma operose, con lo zaino che si è arricchito di esperienza e con noi tre leggermente più esperti e più consci del nostro essere.
Un altro splendido racconto del mio autore preferito. L’intensità della narrazione ti fa semplicemente sentire come se il lettore fosse lì con voi. Grazie.