Fare il giornalista: guida alla sopravvivenza

Come mantenere un’apparenza di sanità mentale in un mondo che sa di Speck e Scamorza andati a male


IL TESSERINO

Non fatelo; mai. A meno che non vogliate fare i “giornalisti” e in tal caso vi obbligano pure. Se invece vi basta scrivere, chiamatevi blogger, aprite un qualsiasi diario binario e date sfogo alle vostre pruriginanti fantasie letterarie. Porterete a casa gli stessi soldi, senza l’incombenza di dover spiegare a mamma e papà che avete un lavoro, non remunerativo, che in molti considererebbero vero se non sapessero lo stato di salute attuale di questa fu ambita categoria. Per ottenere il tesserino da giornalista pubblicista i passaggi sono piuttosto chiari, spiegati sul portale online dell’odg della regione di competenza. A grandi linee vi servono un tot di articoli firmati, un contratto di collaborazione da negriero in un campo di cotone per due anni consecutivi e un numero imprecisato di versamenti che superano gli incassi ottenuti nei due anni di “apprendistato”. Un esame che i cruciverba del Topolino t’impegnano di più e il gioco è fatto. Per la gloria, ovviamente. Sarete finalmente “giornalai” di provincia, le testate camperanno con i vostri sacrifici e la fine del mese diverrà il vostro unico obiettivo. Per la gloria, ovviamente. Eppure alla passione non si può dir di no. Regina in B4; scacco matto.


 LE MINACCE

Inizialmente vi sembreranno attenzioni, poi leggere pressioni. Un giorno il sole sorgerà all’orizzonte, in un cielo terso, sollevando dai prati e dalle case la fresca coperta di rugiada. Il mondo si desta e voi con lui. Il caffè fumante nella tazza aspetta il vostro assenso. Squillerà il telefono, arriverà un messaggio, una mail. Non importa quanto bella sia la giornata alle vostre spalle, qualche politicante, qualche presidente, qualche associazione, qualche impresa, qualche persona vorrà fare di voi il suo personale ufficio stampa, accusandovi di non esserlo stato fino ad ora. Vi dirà che dare voce a qualcuno o qualcosa che non sia lui o ciò che lui rappresenta è illegale, diffamatorio, inequivocabilmente e moralmente sbagliato. Respirate. Se avete fatto il vostro lavoro con coscienza e seguendo il codice deontologico potete stare tranquilli. Minaccerà denunce, millanterà di chiamare chicchessia in nome di una giustizia arbitraria. Continuate a respirare, non alzate mai i toni. Incassate i colpi. Sono fendenti prevedibili, inflitti con coltelli di plastica, quelli retrattili per bambini da carnevale. Distraetevi con dell’altro accantonando momentaneamente il problema, segnalandolo dentro di voi con un pallino rosso, giusto per mantenere vigile l’attenzione. Farà un errore. A quel punto, sempre nei limiti deontologici di questo folle mestiere, puntate alla giugulare.


 LA PASSIONE

La passione, quell’istinto primordiale che vi arde nel petto, è il carburante più sincero. Allo stesso tempo è un nemico silente, che vi lascia agire, che vi spinge con sussurri a non dire mai di no; vi osserva da lontano e vi sprona a migliorarvi, a impegnarvi, a fare più del dovuto. A conti fatti la passione vi porterà a crescere con un dispendio di energie e di risorse incalcolabile e che nessuna testata, o azienda, vi riconoscerà. La passione vi dona la vita e ve la toglie. Che fare? Assecondarla è la sola cosa giusta. A poco a poco vi toglierà parti di voi che avreste voluto al vostro fianco, passatempi che dovrete sacrificare e riposi che non avrete neppure nei sogni più vividi. All’apice di questo processo di frustrazione – soddisfazione caccerete un urlo profondo che risuonerà dentro di voi per molti giorni. A quel punto troverete a poco a poco un nuovo equilibrio. Saprete quanto e come sporgervi nell’abisso della comunicazione, quanto dare al mostro dell’editoria e quanto del tempo della vostra vita dedicare alle altre cose e persone che voi siete. Se non avete passione, non vi preoccupate, ammattirete prima di ieri e lascerete il campo di battaglia senza troppe agitazioni intestine; e in questa issata di bianco vessillo troverete istantaneamente la pace. È un buon segno: farete altro nella vita.


IL BUCO

Dalla redazione cominceranno a parlarvi di prendere e dare buchi. «È il tuo primo buco! Complimenti!». «Hai preso un buco, che non capiti più! Intesi?». Il buco altri non è che l’unità di misura che quantifica il livello di bravura di un giornalista nella caccia alle notizie. «Dare buco» significa scrivere una notizia prima delle testate concorrenti, mentre «prendere buco» equivale a trovare una buona scusa da raccontare al caposervizio. Alcune testate, forti di una posizione egemonica territoriale, vantano numerosi collaboratori che disseminano in ogni «bucio di culo», a volte, creando lotte intestine autodistruttive tra i diversi collaboratori. Smarmellano, sostanzialmente. Altre testate, invece, (di certo quelle in cui anche voi capiterete) hanno un personale così ridotto all’osso da rendere a tutti gli effetti la caccia alla notizia una lotta quotidiana. Arruffianarsi mezzo territorio, amico di tutti – amico di nessuno, tanti sorrisi, tanti caffè, tanti cicchetti. Aiutare dove possibile, aggirare ostacoli, tacere e parlare con cognizione di causa valutando attentamente il contesto e la situazione. Con buona fortuna comincerete in un paio d’anni ad avere una  discreta rete di contatti che si fiderà ciecamente di voi e comincerà a darvi le notizie che sente, che vede, che sa. Il più a questo punto è fatto, ma non bisogna trascurare questi contatti. Andranno viziati e controllati a intervalli regolari. Diciamolo apertamente, diventerete il pappone degli informatori. Il buco, questa straordinaria fonte di eccitazione carnale e lavorativa, rappresenta per il giornalista o aspirante tale, la sola e unica ragione di vita.


 IL PLANNING

Pianificare. Elemento essenziale di ogni buon giornalista, il planning, rappresenta allo stesso tempo la più grande e inutile perdita di tempo della giornata. Vi capiterà di organizzare l’agenda settimanale secondo un’innumerevole serie di appuntamenti ben codificati e calcolare a grandi linee gli ingombri tempistici e spaziali (il loro valore in caratteri da pubblicare). Fieri di scoprirvi attenti e metodici organizzatori gioirete nel guardare la vostra agenda notando qua e là spazi bianchi che già fantasticate di riempire con attività ludico – sportive o qualsivoglia hobby pratichiate. Nulla di più illusorio. Ogni giorno l’imprevisto è dietro l’angolo che vi attende. Ritardi in conferenze, anticipazioni, postdatazioni, la tragedia che irrompe bruscamente nell’incedere programmatico del giornalismo quotidiano, lo scoop, la magistratura, la politica, lo sport. Tutti fattori che non avevate calcolato e che non potevate minimamente prendere in considerazione, ma che dovrete a tutti i costi gestire all’interno di quella scaletta così ben stilata che vi eravate imposti di rispettare. Tutto in fumo e la sola cosa che vi resta da fare è giocare con il tempo, piegarlo ai vostri scopi, facendo aspettare, chiudendo prima alcuni incontri, tagliando corto le interviste, chiamando a distanza più persone quasi contemporaneamente. In tutto questo sballottamento spazio temporale le vostre passioni subiranno un tragico taglio netto. Gola recisa, testa mozzata. Niente spazio per voi. A meno che non impariate a giocare ancora più magicamente col tempo. Ma questo è un fatto personale e ognuno troverà la propria maniera per farlo. Perché non possiamo e non dobbiamo rinunciare a noi stessi.


IL LUNEDÌ

Inutile mentirvi. Non sarà mai il primo giorno della settimana. Non avrete mai il trauma da «oggi tutto ricomincia, si torna al lavoro». Il lunedì per il giornalista non è nulla di tutto questo, ma il normale prosieguo della propria attività giornalistica. Diciamo che le notizie non vanno in vacanza e fino a che la gente è libera di muoversi in spazi e tempi a lei congeniali sarà sempre tentata di commettere una cagata qualsiasi e quell’errore ingenuo e madornale è già notizia. Come tale dovrà essere riportata. Certo, il lunedì, lo spazio di cronaca per nostra fortuna è ridotto al lumicino, grazie al dio calcio che si mangia morti, stragi e crisi di governo. Indovinate? Qualcuno lo dovrà pur fare il report della partita, delle partite. E questo qualcuno è il giornalista. Meno cronaca e più sport. Cambio di tematica, stesso target di persone. Alla fine il ciclo di vita di un giornalista a tuttotondo è piuttosto semplice. Ti assumono (ne riparleremo) e inizi a lavorare. Forse raggiungerai la pensione. All’interno di questo arco di tempo dovrai ritagliarti degli spazi per respirare. Durante i quali non respirerai mai veramente. La stramaledetta tecnologia degli eredi di Meucci/Bell, anche a pile scariche, ti renderà costantemente e perennemente in contatto con il mondo delle notizie. Maledetta notiziabilità dei fatti. E niente, se non si fosse capito, oggi è lunedì.


 IL COLLABORATORE

Se siete assunti a tempo indeterminato all’interno di una testata questa voce non fa per voi. D’altronde se davvero avete il culo piazzato su una sedia di ecopelle nera con rotelle e schienale reclinabile, posso pure capire che non dovreste essere qui a leggere le fandonie di un aspirante giornalista e, per l’appunto, collaboratore. I nostri cari editori (o aspiranti tali: il mondo al giorno d’oggi è continua aspirazione anche di chi è ai vertici perché ha punti di riferimento lontani anni luce da loro per alta morale ed etica, oggigiorno irraggiungibili) insistono a trattare i loro set di giornalisti come «collaboratori». Giustificano il biscottino di paga con il fatto che il collaboratore, per quanto lavoratore, sia un personaggio di passaggio, occasionale, uno non affidabile per competenze giornalistiche. Non è considerato come un apprendista di bottega, uno da svezzare e raddrizzare sulla via della scrittura giornalistica. È più un agnellino sacrificale da buttare in pasto alla quotidianità. Sempre i nostri cari editori, però, dimenticano che questi schiccheracarte occasionali riempiono le pagine dei loro giornali con articoli che, per quanto discutibili (e ancora una volta dovrebbe essere l’editore a dettare la linea editoriale e poco ne ha di colpe l’homo scribens) permettono l’uscita del prodotto e di conseguenza il loro guadagno. Dimenticano inoltre che collaboratore ha un’interessante etimologia: da Cum, insieme, e Laborare, praticare – lavorare. Lavorare insieme. Questo significa collaboratore. I nostri cari editori hanno la tendenza a confondere l’etimo facendo risalire collaboratore a Seer -uus (dalla radice di Sero, connetto) ad indicare colui che è legato. O forse legandolo a Serbare (conservare custodire) «Sotto il nome di servi i romani comprendevano tutti i loro nemici e prigionieri, in quantoché questi venivano conservati per poi essere ceduti come merce al miglior offerente». Buona fortuna, collaboratore.


 IL PALO IN CULO CHE MI RAMAZZI LA STANZA

Vi capiterà di avere a che fare con personaggi della redazione che, nel migliore dei casi, appaiono, da lontano, dietro un angolo, normali. Imparerete a conoscerli e a conviverci e, incredibile a dirsi, vi ci affezionerete. Ben più frequentemente, invece, avrete a che fare con «Il palo in culo che mi ramazzi la stanza». Una sorta di aborto umano mal confezionato al quale han dato una bella poltrona in pelle con sedile reclinabile e rotelline. «Tieni – devono avergli detto – gioca e stai lontano da quelle persone là». Il problema è che a «Il palo in culo che mi ramazzi la stanza» quella sediolina in un angolo non viene vista come una punizione, come un modo per separarlo dal resto della ciurma giornalistica. Il Nostro è fermamente convinto di essere sul trono del potere e come tale si erge a imperatore. Disprezza i sudditi (i collaboratori) dichiarando apertamente e a più riprese che «a questi figli di un dio minore non farei scrivere nemmeno il certificato medico di un uomo morto». «Il palo in culo che mi ramazzi la stanza» è così convinto di quello che dice che a ogni necessità, a ogni pur minima, minimissima incombenza, fa trillare i cellulari dei collaboratori. «Il palo in culo che mi ramazzi la stanza» è altresì convinto che, data la prestigiosa posizione che occupa all’interno della gerarchia redazionale (che solo lui vede) può obbligare i collaboratori a piegarsi alle proprie volontà. Di qui il nome: egli crede di infilare nel culo a chiunque una scopa e di obbligarlo a pulire dove e quando vuole sua eccellenza. Peccato che basta un semplice trucco. Armatevi di pazienza, non cadete nei tranelli e nelle inflessioni della voce burbera e arrabbiata. È solo un mero tentativo di provare a incutervi timore ostentando rispetto per una posizione che non gli compete. Lasciatelo parlare e spiegate che, al limite, se proprio ci tiene al vostro aiuto, potete dargli una mano a infilarsi nel culo la scopa che a ramazzarsi la stanza ce la fa benissimo da solo.


 LA BANCA

Il grande facocero grugnisce fiero dei suoi tassi d’interesse e campa sulle spalle dei poveri risparmiatori abbellendosi di una maschera di servilismo ossequioso al benessere della cittadinanza tutta. Se ci fosse una definizione di banca, questa è quella che darei io. Ambienti puliti, profumati, personale imbellettato, a modo, cordiale, sorridente. Una macchina che t’incanta e ti impone uno sguardo fisso su ciò che hai davanti agli occhi, mentre un famelico gruppo di nani da giardino alla tue spalle lavora per la soluzione definitiva: la grande supposta. In banca ci vai e sai già di perdere la tua partita. Non importa tu sia una gazzella o un leone, che tu abbia milioni o 20 mila lire che non sapevi di dover cambiare entro il 2006. Non importa che alle pareti ci siano manifesti che ti incoraggino a chiedere soldi alla banca, perché il tuo futuro non ha prezzo, perché i sogni sono tutti raggiungibili, perché loro credono in te. E nella tua capacità di restituire ogni singolo centesimo e qualcosa di più. Non importa tutto questo. Se sei un giornalista, un giornalista da strada, d’assalto (quell’assalto fatto di caffè e spriz e partite a briscola al bar dei veci del paes: quelli che sanno tutto di tutti prima ancora dei diretti interessati), se sei questo tipo di giornalista e porti al grande facocero il tuo contratto, il grande facocero guarda perplesso i fogli, ti guarda, riguarda i fogli, ti guarda, riguarda i fogli, ti guarda, guarda i fogli, guarda a destra, guarda a sinistra, riguarda i fogli, ti guarda. «Mi dica che non è qui a chiedermi più di 5 euro». Ecco. Spero di essermi spiegato.


 LA MORTE

Si cazzeggia. La maggior parte del tempo un giornalista si fracassa i coglioni ascoltando l’opinione di questo o quel politico di turno che nel risvolto interno al giacchino firmato, dentro la piccola tasca porta penne, conserva scrupolosamente la soluzione a un numero imprecisato di questioni polito-amministrative diverse. Il giornalista si martella ripetutamente gli zebedei alla descrizione puntuale e purtroppo reale, appartenente più al genere del teatro satirico che alla vita quotidiana, dell’opinione pubblica; di quei cittadini «So tutto io e adesso ti spiego» che al pari del politico, che odiano in qualità di loro acerrimo nemico, conservano altrettante soluzioni semplici, immediate e «ChissàPerchéIrrealizzabili». Solitamente è tutto un complotto. Si diventa improvvisamente seri. Il telefono squilla e lo sai che a quell’ora in quella situazione può essere solo per qualcosa di grave. La Morte si è presa qualcuno. Lo sai che in quel momento è tutto una merda. Ci puoi girare attorno, nasconderti dietro il dovere deontologico di dare l’informazione, di narrare i fatti, arrogandoti magari capacità di tatto e sensibilità. Se capitasse a te, l’ultima, l’ultimissima persona che vorresti davanti è un ipocrita armato di penna e taccuino. Ipocrita, perché sebbene quel corpo esanime non lo conosci, ti si riga nel volto uno sguardo triste. È vero? Probabilmente è solo empatia o disagio. La situazione è delicata. Vuoi fare il tuo lavoro, ma lo vorresti fare in qualità di mosca con la capacità di volare silenziosa e recuperare le informazioni che ti servono senza arrecare disturbo. Per piano o delicato che ti muova stai facendo un terremoto. Tu lì, tra i pianti e le grida strazianti sei fuori luogo. Non è il tuo dolore e sei costretto a parteciparne. In più a scriverne e a trasmettere una sofferenza non tua al mondo che sta fuori, dando fiato e voce ai soliti «So tutto io e adesso ti spiego». Allora il silenzio? No. Si farebbe torto uguale. Si deve cercare di trovare, in quell’inferno emotivo, l’equilibrio empatico e sensibile, tra il fatto e il dolore, tenendo sempre a mente che si deve portare rispetto.