È buio. Il sole non ha ancora cominciato a rischiarare il cielo. Riesco comunque a intravvedere un po’ di nuvole. Sto preparando lo zaino per la mia settima salita allo Stivo. Sono diversamente emozionato. So che non vedrò l’alba dalla cima, sia perché la giornata non è delle migliori sia perché, a differenza del tramonto,
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La cosa che più mi piace, quando arrivo in vetta, su di una qualsiasi cima, è la possibilità di avere lo sguardo libero a 360°. Il mondo, dall’alto, è più leggero, privato di quei rumori, odori, routine, doveri, piaceri, vizi, regole, che poi, paradossalmente, vado comunque cercando e di cui mi nutro giorno dopo giorno.
Il telefono vibra. È sera. Un messaggio su whatsapp. «Oh, va bene se la prossima volta viene anche il mio vicino? Non c’è mai stato». Mi chiede El Vedrèr.«Sì certo». Rispondo. Mi sono dato questa sfida, «12 volte la prima», per riuscire a veder concretizzarsi una mia idea. Ne sentivo e sento la mancanza, perché
Quella prima salita, avvenuta a gennaio, non era andata come si aspettava. El Vedrèr, da qualche mese aveva intrapreso un consistente allenamento giornaliero. Una sua personale sfida che si era fatta vera e propria abitudine. Una vittoria di non poco conto, ma che non era diventata ancora tangibile anche perché il traguardo reale altro non
Lì, su quella lastra di ghiaccio che sormonta il tracciato, senza ramponi, senza racchette, con a destra un erto lembo di monte che si alza vertiginoso verso sud-est e dall’altra il burrone, due pensieri te li fai e anche qualche conto personale. Siete mai stati in una stanza anecoica? È una camera capace di assorbire